Il mio figlioccio Bafoly.

Prima di rientrare in Italia devon mantenre un promessa fatta in Italia. Devo andare in Gambia, a Brikama. Lì ora vive Bafoly, che per tre anni è stato ospite di una comunità per minori a Bari e ora è voluto rientrare in Gambia a trovare la sua famiglia, tra mille difficoltà.

Parto alla volta del Gambia con Carlito. 53 anni, padre di 12 figli. Mi dice che qui in Guinea c’è un detto che vuole che si facciano molti figli, per poi riposarsi e farsi mantenere dai figli. Poi lui ci scherza, dice che in realtà è lui che deve mantenere tutti i 12 figli e che deve lavorare di più per accontentare tutti.
Appena mettiamo in moto questa vecchissima Nissan Sunny mi rendo conto che st’auto non ci porta in Gambia. E infatti ci fermiamo all’altezza del ponte de Sao Vicente, dopo un’ora di viaggio, in una zona paludosa che mi dà l’opportunità di vedere per la prima volta da vicino le sabbie mobili. Carlito dice almeno 30 volte in italiano perfetto PORCA MISERIA!
Non ci resta che attendere che venga da Bissau un’altra auto che mi porti sino in Gambia. In Africa oltre che gli spazi, pare si dilatino anche i tempi e ti devi adeguare a questa grande legge, più gli spazi si fanno grandi e meno ci si fa prendere dall’ansia del tempo. Aspetto in serenità tra qualche foto e un buon libro.
Dopo due ore me mezza arriva Paulo, con un Renaut Espace super accessoriata. In poco tempo siamo in Senegal, ma ci perdiamo e così dobbiamo prendere a bordo Ibrahim, un senegalese sulla 50ina che per 2.500 franchi ci guiderebbe sino al confine col Gambia. Poi una volta in auto sale già a 5000, dice che intendeva 2500 a cranio. Al primo check point dobbiamo far salire Bubacar, un poliziotto in borghese che per 10mila franchi dice che ci scorta sino al confine col Gambia passando senza problemi tutti i check point della polizia e dell’esercito. E’ una zona molto militarizzata, perché è stata sempre teatro di scontri con guerriglieri o bande locali. E su sta cosa quelli come Ibrahim e Bubacar ci marciano alla grande. Più un paese è povero, più ci sono controlli, più passa di tutto, per via della corruzione. Di fatto quando viaggi in questi paesi è impossibile dormire, sia perché hai paura di perderti la foto del secolo, sia perché ogni 10 minuti ti fermano per controlli e controlli, ti aprono tutto. Poi con la pelle bianca, i controlli sono sempre molto fitti, in attesa che il bianco sganci moneta. Il poliziotto chiede dopo un po’ di sedersi avanti. Lo accontento. In effetti ai check point fila tutto liscio, ma i due tipi continuano a parlare tra di loro in un idioma particolare e la cosa inizia a insospettirmi, tanto che apro la custodia del coltello da pesca che mi porto sempre dietro e lo sistemo pronto all’uso, senza farmi notare. Mi rassereno solo quando vedo che la strada è quella giusta, direzione Gambia.
Al confine tra Senegal e Gambia ci dicono che non fanno passare le auto, per un problema tra i due paesi. I miei due faccendieri mi consigliano di andare a parlare con un boss locale, steso su una stuoia di paglia, sotto un albero gigante, con una dozzina di uomini intorno. Se ci penso ora a quanto sono stato sprovveduto. Mi chino, gli chiedo in inglese di lasciarci passare, gli offro denaro, ma lui neanche mi rivolge la parola, e i miei due accompagnatori mi fanno cenno che non è il caso di insistere. Anche qua c’è di mezzo chi ci guadagna, tra tutti quelli che ti accompagnano da una dogana all’altra, circa un Km, per 1000 franchi a testa. E così lasciamo l’auto in custodia a un doganiere senegalese, altri 3000 franchi, e con un taxi entriamo in Gambia. Il Gambia ti accoglie con un bel cartello, con un uomo con una gamba amputata che ti avverte che stai entrando in un paese ad alta concentrazione di mine anti uomo. Come benvenuto direi niente male.
Partiamo quindi per Brikama che raggiungiamo dopo una mezzoretta. Vado davanti alla stazione di Polizia, lo chiamo e alle cinque del pomeriggio appare la sua sagoma inconfondibile e mi viene da piangere. Andiamo in uno dei tre negozi di proprietà del fratello, che Bafoly gestisce con un fratello di 8 o 9 anni, Malik. Mi chiede di chiamare in rigoroso ordine: Anna, Antonello, i ragazzi e Domenico. Poi mi chiede di chiamare anche Damaris e Tonia ma non mi trovo i loro numeri. Gli pago una ricarica sul suo cell e iniziamo le chiamate. Quando sento Nino e Angelo mi viene il secondo nodo in gola.
Bafoly non smette di dire : “Masimilano sta qua, Masimilano sta qua, io non ce lo posso credere”. Alle sette in punto chiude bottega e dopo venti minuti a piedi arriviamo a casa sua. Da lontano, dal suo cancello di casa, mi corrono incontro tre bambine bellissime, sue nipoti. La casa è come fosse un piccolo cortile, con tante piccole stanze intorno. In tutto ci vivono quasi trenta persone. La mamma di Bafoly è andata nel suo villaggio e non la potrò conoscere. Mi presenta il papà, 60 anni, pare che ne ha 90. Entriamo nella sua stanza ma non gli possiamo parlare, sta pregando, e prima di conoscerlo me ne devo stare 10 minuti in un angolo, al buio e in silenzio, mentre lui si genuflette in continuo con la fronte verso La Mecca.
Poi inizia il giro dei parenti, al buio, senza corrente elettrica, che viene solo due o tre giorni la settimana. Dalle 8 alle 9 tutti i bambini per terra, intorno a una candela a cantare i versi del Corano col papà di Bafoly. Qui lo chiamano tutti Foly.
E’ ora di cena. Riso col sugo alle arachidi. Si mangia per terra, tutti intorno un unico grande piatto, con le mani, l’unico cucchiaio lo danno a me. Poi mi fa vedere la stanza dove dormo, piccolissima, ma ci entrano nove dei suoi fratelli solo per vedermi…per vedermi mentre crollo di stanchezza. Alle dieci mi concedono di crollare. Ma la notte, nella stanza accanto dove Foly dorme coi fratelli più grandi, c’è baccano sino alle 4 del mattino. Poi ci si mettono anche le zanzare. Per fortuna che da una radio in casa viene fuori la grande musica di Bob Marley, che quando la senti in Africa sembra che è n’altra cosa.
Al mattino riesco a prendere sonno verso le 5. Alle 8 precise Bafoly entra nella mia stanzetta ridendo e gridando: “Masimilano, fuggi da Foggia”. E scoppio a ridere. Giro casa sua e faccio un po’ di foto. Ai bagni all’aperto (uno per la pipì e uno per la pupù), alla cucina (in paglia, con pietre per terra e carbone), alla nonna (che ha 90 anni e ne mostra 60), ai bambini.
Colazione. Zuppa di miglio, molto buona. Tutti per terra, intorno al cibo. I bambini continuano a toccarmi i peli delle braccia, non pare loro vero che esistano i peli sulle braccia.
Bafoly sta bene, prende le medicine, e questo mi pare il suo ambiente ideale, ma vuole tornare in Italia.
Rientriamo al negozio, mi fa vedere gli altri due negozi del fratello e poi mi riaccompagna in tarda mattinata prendere il taxi per la dogana col Senegal.
E pensare che molti mi sconsigliavano di fare questo viaggio, per via di scioperi, controlli, rischi, bande e un paio di sogni in cui venivamo assaltati durante il viaggio. Ma ricordo un proverbio africano che credo dicesse così: non importa quanto lunga è la strada nella foresta, ma quanto è importante per te la persona che sta dall’altra parte della foresta.